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Vent’anni è un numero tondo. E come tutti i numeri tondi è un numero che sa di buono (decisione arbitraria e assolutamente faziosa dell’autrice). Che sa di buono anche per suggellare un ingresso nello show biz, pur da dietro le quinte, materialmente, o di fronte al palco, ma comunque a ridosso di una consolle (per i più vintage) o di un sottile, imprescindibile, stilosissimo Apple (per i più up-to-date). È infatti proprio a vent’anni, nel 1997, che Marco Melchior, friulano Doc di un piccolo paese della provincia di Udine (“not too far from Venice”, si dice agli stranieri) esordisce come dipendente di un full service dello spettacolo, la storica Music Team. E si può dire che la “decisione arbitraria e assolutamente faziosa dell’autrice” sia confermata dai fatti, perché da quella volta non riesce più a smettere, issandosi un gradino alla volta sull’ampia scala cromatica delle esperienze tecniche legate alla messa in scena di una performance. Prima di allora, Marco gioca a calcio, con discreto successo, e completa la sua formazione in una scuola tecnica, assecondando il suo talento a costruire, creare, congegnare. Non canta (gli amici dicono sia meglio così), ma talvolta suona la chitarra – pensando a Dire Straits e Pink Floyd –, per divertimento e per passione. Una passione che però rende ancora migliore il tocco degli strumenti del suo mestiere. Ma che mestiere, dunque? Difficile incasellarlo con precisione, perché complesse e diversificate sono le esperienze e gli ambienti artistici con cui di volta in volta viene in contatto. E che porta strette nel cuore e sulle dita. Il teatro e la danza per primi, poi l’approdo all’amata musica. È proprio “qui” che si affina la preferenza assoluta, ossia l’audio, cui decide di dedicarsi intrigandosi nell’apprendimento di tutte le sue sfaccettature.

I numeri tondi continuano a seguirlo. Se 4 è sempre stato il suo preferito, 2 sono le tappe fondamentali nella sua evoluzione professionale: la Biennale di Venezia, settore DMT (DanzaMusicaTeatro), in cui lavora per quasi 4 (che si diceva?) anni, a fianco del direttore tecnico. E Umbria Jazz, che dal 1999 lo vede sempre, sistematicamente presente, accanto al maestro Gianni Grassili. È proprio da questi festival che sbocciano le prime collaborazioni internazionali: con Carolyn Carlson (come direttore tecnico), con la finlandese Tero Saarinen Dance Company e la cantante brasiliana Rosa Passos (come sound engineer). Sono proprio queste collaborazioni a lanciarlo in quella che diventa poi un’altra passione, declinata all’interno di un “dovere”: viaggiare. Viaggiare per lavoro. In tutto il mondo. Conquistando prestigiose venue, come la Carnegie Hall di New York o la Queen Elisabeth Hall di Londra. E viaggiare, si sa, fa bene, perché espande la mente e rafforza l’area deputata al controllo del linguaggio: Marco, infatti, aggiunge all’italiano (e a un ottimo friulano), anche l’inglese, lo spagnolo e il portoghese. Impara, ancor più ampiamente, ad assorbire le tante parlate dei colleghi che incontra nel suo cammino, facoltà che gli viene riconosciuta, giacché gli permette di lavorare, danzando al ritmo della loro lingua, con diverse agenzie e artisti di varie nazionalità, come l’ultima new-entry del 2007, Omar Sosa, un vero “world-artista”, la cui collaborazione continua tuttora.

In Italia, però, torna spesso: nel 2003 inizia la collaborazione con La Fabbrica del Suono di Padova, studio di registrazione che lo ispira a fondare, nel 2007, il ChelAlè Music Lab, una piccola realtà produttiva, ma in piena espansione, in Friuli Venezia Giulia, vicino al paese che continua a lasciargli in bocca il dolce sapore di casa. Ma per adattarsi al suo spirito vagabondo, questa struttura non può essere statica: con ChelAlè si formalizza, infatti, quello che già dal 2004 è il suo studio mobile, dedicato alla registrazione degli eventi dal vivo. Che spaziano, con una sempre più marcata specializzazione, dalla musica acustica (jazz, classica e contemporanea) all’afroamericana (gospel e funk).

Poiché curiosità fa rima con versatilità, Marco applica queste sue caratteristiche ricoprendo, spesso e volentieri, anche il ruolo di direttore tecnico o di light designer. Tradisce, così, serenamente, il comune pensiero che vede il professionista dell’audio mai impegnato nel campo visivo. Perciò, se la sua affermazione più consistente è come sound designer, la poliedricità riemerge in diverse occasioni: cede infatti, spesso e volentieri, alla tentazione di ricoprire incarichi di responsabilità tecnica, principalmente come stage manager o direttore di produzione, per eventi e festival nazionali.

Che fa, dunque, Marco, alla fine? Il fonico, come direzione cardinale, e il visual&tecnichal designer (una sintesi di tutto questo percorso), come “affluente” al corso principale. Per seguitare a concentrarsi sul suo focus e nel contempo alimentare il suo piccolo grande credo: l’interdisciplinarietà, come segreto per continuare a imparare, a crescere sempre, nella sua figura di tecnico in grado di aiutare l’artista nello sviluppo dello show.


scritta da Chiara Pippo (giornalista)

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